Sarebbe peraltro un errore riferirsi soltanto ad una dimensione storica di fine Ottocento francese. Analizzando i quadri quasi a volo d'uccello, cioè con raffronti rapidi ed improvvise convergenze, salta fuori un'altra grande <<categoria>>: quella secentesca.
Rumi risale nei tempi, alla ricerca delle sue sources ideali. Trova (almeno io credo) Frans Hals, l'olandese che pennelleggia appunto come uno spadaccino, pronto a cogliere il momento espressivo e a realizzarlo con la massima sintesi. Basti vedere l'Autoritratto del 1963: par desunto da uno dei personaggi delle ghilde olandesi, immortalati nel museo di Haarlem.
C'è anche la stessa alternanza di chiari e di scuri (addirittura bianchi e neri) che giuoca prepotentemente con la luce. Ma è proprio l'immediatezza del gesto che Rumi, come Hals, vuol cogliere. Ed è per questo che egli si rivolge anche ad altri pittori secenteschi, dagli spagnoli come Velasquez agli italiani come il Guercino o, meglio, Luca Giordano.
Mi pare persino che la scelta degli abiti (personaggi di scena, quindi in una dimensione di riporto teatrale) confermi questa ipotesi. Lui stesso, Rumi, ama atteggiarsi ad attore (lo spendido autoritratto del 1974, così intenso e ricco di pathos) e ciò ci dice anche della sua posizione psicologica di fronte al mondo : la vita come recita, attonita ed amara; il gesto come intenzione di maschera; lo sguardo brillante sulle cose che fuggono. Tutto diventa effimero, come se la pittura cercasse proprio di cogliere l'attimo fuggente. La dimensione esistenziale secentesca, cioè barocca, è vicina. Ed è una dimensione di verità fittizia, che traduce simboli ed emblemi. Dietro, la tragedia sublime di Shakespeare.
E l'oggi ? Sempre sul filo delle impressioni, risalta anche la modernità di Rumi, cioè la sua capacità di guardare anche agli eventi contemporanei; e quindi di cogliere da essi ciò che gli è più consentaneo. Già, risalendo gli anni, è evidente come egli si sia soffermato sul versante cézanniano: soprattutto taluni paesaggi, ma anche alcune nature morte, rivelano un costruire per masse, secondo l'esigenza di "organizzare" e "consolidare".
Evidentemente Rumi, che si sente abilissimo nei fendenti rapidi della pennellata, teme di scompaginare la forma, di perdere il filo unitario del discorso; e l'aggancio primo diventa, logicamente Cézanne.
Ma non basta: lo sgranarsi della materia rivela la approfondita conoscenza dei movimenti astratti di questo dopoguerra, la pittura gestuale, soprattutto. Da Boccioni (cui certi motivi dinamico-strutturali ci rimandano) fino agli astrattisti degli anni Cinquanta e oltre, c'è una linea di eccitazione gestuale, che finisce per darci certi brani incantevoli di libertà espressiva.
In realtà Rumi ha imparato stupendamente a lavorare di trasparenze e smagliature, con una leggerezza che sbalordisce. Il suo metodo è quello della partenza dal nero e della sovrapposizione, quasi a velature grezze, fino a scoprire i filtri misteriosi della luce. Ecco il senso di profondità che danno i suoi quadri; quella continua vibralità e motilità ; quell'uscire dal fondo e risaltare con effetto tridimensionale. Persino talune stesure brusche (come i rossi squillanti che campiscono non pochi quadri) perdono la loro piattezza, per farsi vive e mosse.
E anche questa, della decantazione materica, è una lezione moderna che Rumi ha saputo perfettamente assimilare, per quanto - occorre ben dirlo - egli resti sempre se stesso, e da nessun altro pittore abbia mai desunto letterali riporti stilistici. ....